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Ma dove sono finiti i vecchi ristoratori?

di Pietro Saccò

Dove sono finiti i vecchi ristoratori, quelli che aprono un locale o un ristorante perché inseguono la loro passione, hanno un piccolo progetto o semplicemente perché è questo quello che sanno fare? A guardare le insegne, mentre si passeggia per via Solari e dintorni, sembrano non essercene quasi più. O meglio: si vedono quelli che ancora resistono, cioè i locali aperti da decenni gestiti da famiglie che più o meno faticosamente portano avanti la tradizione, e si notano quei pochi che ci provano, i coraggiosi che avviano la loro attività indipendente sapendo che come vicini di casa si troveranno molto probabilmente qualcosa di molto più grande di loro. Magari un gruppo da milioni di euro di fatturato oppure l’ultimo concept di un fondo di investimento.

Impossibile non accorgersene: le vetrine del quartiere attorno alla parrocchia del Rosario si stanno popolando con impressionante rapidità di ristoranti senza ristoratori, che replicano facendo economie di scala modelli riusciti altrove o che sperimentano anche in quest’area della città le ultime idee imprenditoriali venute in mente a qualche esperto di marketing e di startup.

Basta qualche esempio. In poco tempo e nel giro di poche centinaia di metri hanno aperto due pizzerie al taglio Alice (controllate dal fondo DeA Capital di De Agostini, circa 28 miliardi di euro di patrimonio) e due ristoranti La Piadineria (catena da poco ceduta dal fondo Permira a un altro fondo lussemburghese Cvc Capital, che dispone di circa 186 miliardi di euro). Davanti alla parrocchia c’è il ristorante di panini di pesce Pescaria, che appartiene a un’agenzia di marketing barese chiamata Brainpull, mentre poco più in là, dove una volta c’era un supermercato Sigma, la birreria Spiller controllata dal produttore di birre altoatesino Forst (è la quarta a Milano di questa catena) ha da poco preso il posto dell’effimera pescheria Pescatorum, che si era presentata come una “startup” di “store” di quartiere capaci di riscoprire i pesci dimenticati. Tra via Foppa e via California è spuntata Crocca, pizzeria controllata dalla società che controlla anche il marchio Pizzium ed è la principale attività dell’imprenditore brianzolo Stefano Saturnino, che ha lanciato diverse catene e ha l’appoggio del fondo di private equity Equinox. All’angolo con Stendhal non è sopravvissuto nemmeno due anni Lob’s, tentativo fallito di proporre cucina americana da parte del gruppo veneto Dmo, che ha avuto più successo con i negozi di prodotti per la casa (Caddy’s) o cosmetica (Beauty Star).

Le catene e i grandi fondi di investimento non sono il male. In molti di questi posti – conviene sottolinearlo – si sta (o si stava) anche bene e alcuni hanno prezzi competitivi. La tendenza alla chiusura dei negozi e dei ristoranti indipendenti e la crescita delle catene, anche nel settore della ristorazione, è una tendenza globale che fisiologicamente arriva a Milano, e nella nostra area, prima che in altre zone d’Italia (la Fipe, l’associazione dei bar e dei ristoranti, calcola che oggi le catene fanno l’11% del mercato della ristorazione italiana). La tendenza, insomma, è questa. Però è giusto interrogarsi su che cosa porta questa trasformazione, sugli effetti che l’arrivo di questo tipo di attività e di questi capitali hanno sul territorio che viviamo.

Perché, ad esempio, qualcosa cambia sul fronte della “comunità” e del vivere insieme. È sicuramente positivo che gli investimenti di queste grandi imprese portino lavoro. Ma per chi? Quanti dei dipendenti di queste imprese hanno stipendi che permettono loro di vivere vicino al posto in cui lavorano o almeno nel raggio di tre o quattro chilometri dal quartiere? Sicuramente pochi: la grande maggioranza sono persone che abitano distanti, i clienti che servono non sono le persone che vivono attorno a loro. Se la ristorazione è anche relazione, e non solo scambio economico e soddisfacimento di bisogni, questa distanza di esperienza della quotidianità tra chi vende e chi compra non può che ridurre la capacità di un “punto vendita” di creare senso di comunità tra le persone della zona. Questo è ancora più vero quando nemmeno il titolare vive lì e quindi le sue sorti e quelle della gente che abita la zona del suo ristorante convergono soltanto sull’aspetto economico. I fondi di investimento e i grandi gruppi solitamente cercano di creare redditività, non comunità.

Anche per i ristoratori indipendenti qualcosa cambia. Quando arrivano fondi con disponibilità milionarie, per un esercente può diventare difficile reggere la concorrenza. Sia quando è diretta (qualcuno avrà notato che alla fine di via Solari, ai numeri 39 e 41, ora ci sono due grandi pizzerie una a fianco all’altra, chi resisterà?) ma anche quando è indiretta e riguarda solo gli spazi a disposizione. I costi degli affitti dei locali, quando non sono di proprietà, possono diventare proibitivi, inaccessibili, come già sta succedendo per le abitazioni. Il business delle librerie indipendenti ha i suoi problemi, ma può essere ancora più difficile mantenere una libreria in un luogo dove magari un gruppo da decine di milioni di fatturato ha pensato che si potrebbe aprire una piadineria, una pokeria o qualche altra attività replicabile e scalabile (e il quartiere ha da pochi mesi tristemente perso la Libreria Corteccia, che stava in via Lanino e da marzo non c’è più).

In via Solari ora ci sono due pizzerie una a fianco all’altra: a fianco alla storica “Il Pomodorino” è spuntata una Pizzium

Dario Bossi, parrocchiano di antica data, è direttore di Ancra, storica associazione di Confcommercio che associa i negozi di prossimità specializzati in elettrodomestici ed elettronica. Queste dinamiche le conosce bene: «Nella nostra zona resiste un’imprenditoria autoctona che porta avanti la tradizione che va di padre in figlio. Per chi inizia adesso è complicato. Guardiamo ad esempio i bar, con l’espansione di imprenditori cinesi sempre più attivi anche nella piccola ristorazione. È chiaro che così rischiamo di perdere la nostra identità». Nell’ambito della ristorazione, aggiunge, oggi è richiesta molta più specializzazione per differenziarsi dalle catene: «Resiste il gourmet, chi trova la sua nicchia. E anche chi ha saputo adattarsi alla logica del pranzo a dieci euro, e questo sa fare anche comunità». Bossi sottolinea anche il fenomeno dei rider per le consegne a domicilio, che hanno aiutato tanti ristoratori durante il Covid ma oggi allontanano ancora di più le attività di ristorazione dal loro territorio di presenza fisica, così come la questione dei dehor, gli spazi all’esterno: «I comitati di quartiere forse hanno reagito in maniera sbagliata, ma è chiaro che c’è poco controllo e l’assenza del rispetto delle regole crea sempre problemi».

I nodi sono tanti. L’arrivo massiccio delle catene si inserisce in un più generale processo di “turistizzazione” e “gentrificazione” di Milano, che sta diventando sempre più una città da visitare più che da abitare (un processo descritto in modo efficace e forse fin troppo severo dall’urbanista Lucia Tozzi nel libro L’invenzione di Milano) e in ogni caso riservata se non ai ricchi almeno ai veri benestanti. Nel raggio attorno alla parrocchia, salvo l’isola di edilizia pubblica del quartiere Umanitaria, ci sono poche abitazioni per chi arriva e non ha redditi famigliari a cinque cifre. Può essere che questa trasformazione renda la zona più redditizia e faccia salire il Pil per abitante (quasi certamente è così) ma è molto improbabile che renda gli stessi abitanti più felici.

Mauro Magatti, Leonardo Becchetti e altri sociologi ed economisti di area cattolica hanno sviluppato il concetto di economia e società generativa che si oppone a quello di economia estrattiva: mentre la seconda toglie ai territori e alle comunità, li sfalda, li indebolisce e si arricchisce a spese loro, la seconda li arricchisce davvero, aumentando il capitale sociale, culturale e relazionale di un territorio, con una crescita che porta con sé anche un benessere economico più autentico. Possono sembrare idee complicate, troppo teoriche e astruse, quando le guardiamo in astratto, ma sono realtà che possiamo capire quando le vediamo concretamente nella quotidianità dei luoghi che viviamo.

Gli educatori a Sarajevo, in un viaggio tra guerra, pace e speranza

di Maria Laura Pisani

Nel cuore della Bosnia-Erzegovina, sorge una città intrisa di storia, cultura e, purtroppo, di conflitto. Sarajevo, crocevia di culture e religioni, è stata la meta di un viaggio straordinario a inizio marzo per Don Martino e alcuni degli educatori dei ragazzi del liceo. È stato un viaggio di scoperta e di confronto, un’immersione nella storia e nella realtà contemporanea di un luogo che ha vissuto momenti di splendore e tragedia.

La storia di Sarajevo è una tessitura intricata di eventi, una miscela di culture e religioni che convivono in un equilibrio fragile. Durante il nostro soggiorno abbiamo avuto l’opportunità di comprendere le radici della guerra che ha segnato profondamente questa terra. Abbiamo incontrato e ascoltato persone che hanno vissuto la guerra sulla propria pelle e che, nonostante le avversità, continuano a coltivare la speranza e a lavorare per un futuro migliore. Ascoltare le loro testimonianze è stato davvero commovente e illuminante.

Abbiamo avuto modo anche di visitare l’orfanatrofio “SOS Village”, organizzato in diverse “case famiglia”. Qui abbiamo incontrato alcuni bambini e siamo rimasti colpiti dal fatto che, se al nostro arrivo eravamo convinti di poter dare qualcosa a questi piccoli, usciti da lì ci siamo resi conto che in quelle poche ore sono stati proprio i bambini a darci tanto, grazie ai loro sorrisi, ai loro disegni e addirittura a quelle macchinine che ci sono state regalate con tanto affetto. Siamo rimasti colpiti dalla generosità, visto che il numero di giocattoli di quei bimbi non è proprio paragonabile a quello che hanno i bambini nella nostra città.

Il gruppo degli educatori di Santa Maria del Rosario in viaggio a Sarajevo

È impressionante come, visitando la città, si vedano ancora i segni dei colpi della guerra, che narrano silenziosamente la storia di sofferenza e distruzione che Sarajevo ha conosciuto. Sembra incredibile pensare che ancora nel 1984, pochi anni prima della guerra, questa stessa città abbia ospitato le Olimpiadi invernali, simbolo di pace e fratellanza tra le nazioni ed evento che ha proiettato Sarajevo sotto i riflettori internazionali.  Sarajevo, però, non è solo il ricordo delle ferite del passato, ma anche testimonianza di speranza.

L’impatto della guerra e la complessa situazione politica attuale della Bosnia-Erzegovina ci hanno fatto riflettere profondamente anche sulla fragilità della pace. La divisione etnica del paese, con la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica Serba, crea uno stallo politico che ostacola il progresso e l’unità nazionale. Per esempio, ogni ministero, ad eccezione di quello dei trasporti e dell’istruzione, ha due ministri: uno per la Federazione e uno per la Repubblica. Questo spesso genera conflitti, poiché i ministri tendono a contrastare le iniziative di interesse dell’altra parte. È una realtà intricata, dove ogni passo verso la cooperazione viene spesso contrastato dalle tensioni etniche e politiche.

Tornando a casa, portiamo con noi non solo ricordi indelebili, ma anche un senso di responsabilità. Essere lì, in un luogo dove 30 anni prima si è combattuta una guerra che ha portato tantissimi morti e pensare che tuttora, molto vicino a noi, si stiano combattendo altre guerre, fa davvero venire i brividi!  La Bosnia-Erzegovina è sicuramente un esempio vivido di come il passato possa gettare ombre sul presente. Penso, infatti, che sarebbe molto utile studiare questa parte di storia molto più nel dettaglio anche nelle scuole, poiché è molto importante per capire alcune dinamiche che riguardano l’attualità.

Ci rendiamo conto che la conoscenza e la consapevolezza siano fondamentali per costruire un mondo migliore. È nostro dovere, come educatori e cittadini del mondo, condividere queste esperienze con i ragazzi, perché solo comprendendo il passato possiamo sperare di cambiare il futuro!

L’esperienza a Sarajevo ci ha insegnato che anche nei momenti più bui, la luce della speranza continua a brillare. E ora, più che mai, ci sentiamo chiamati a essere agenti di cambiamento, ad agire per promuovere la pace e la comprensione tra i popoli.

Quest’estate, insieme agli adolescenti, faremo ritorno a Sarajevo. Sarà un’opportunità per loro di conoscere da vicino una realtà complessa e affascinante, ma soprattutto di essere ispirati a fare la differenza nel mondo.

Sarajevo ci ha aperto gli occhi e il cuore. È importante condividere questa visione con il mondo, perché solo insieme possiamo costruire un futuro di pace e tolleranza.

“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.” (Matteo 5,9)

La famiglia bip, un gruppo che si nutre d’amore

di Francesca Barizza

Il gruppo bip è un gruppo storico dell’oratorio, esiste da più di quarant’anni ed è una realtà meravigliosa. Il nome nasce in chiave scherzosa: la disabilità negli anni ’80 era ancora un po’ un tabù perciò Roberto, che ha fondato il gruppo, ha deciso di mettere un bip al posto della parola “disabili”, richiamando i bip sonori che si mettevano sulle parolacce in radio o in televisione. Il gruppo disabili fa storcere il naso? Nessun problema, vi presentiamo il gruppo bip!

Un po’ per caso, quasi cinque anni fa, sono entrata a farne parte anche io. Vivevo a Milano da poco più di un anno e una mia amica dell’università mi ha proposto di andarci con lei un mercoledì. Da quel momento non ho mai smesso.

Nel gruppo siamo ormai più di sessanta e i ragazzi con disabilità – che noi chiamiamo semplicemente “i ragazzi” – sono più o meno una ventina. Ogni mercoledì ci troviamo al bar dell’oratorio e svolgiamo diverse attività ludiche insieme: tombola, karaoke, tornei di biliardino, ping pong, pallavolo, calcio, basket, cacce al tesoro o altri giochi che ci inventiamo di volta in volta. Poi ceniamo tutti insieme e tra una chiacchiera, una battuta e un abbraccio il tempo vola. A volte usciamo dall’oratorio per fare altre attività o andiamo a mangiare da qualche parte, altre volte vengono a trovarci altri gruppi di Milano e condividiamo con loro i momenti di gioco e la cena, altre volte ancora svolgiamo dei laboratori con esterni, come nel caso di un laboratorio di cucina organizzato prima di Natale. Ogni estate, l’ultima settimana di giugno andiamo in vacanza tutti insieme, a fare quella che per noi è la “Baita bip”. In due occasioni siamo andati a Roma ad un’udienza del papa, dove i nostri ragazzi hanno potuto stringergli la mano e avere la sua benedizione. Insomma, le cose che facciamo sono molte e i ricordi che costruiamo e conserviamo insieme ancora di più. Da un paio d’anni, inoltre, in un gruppo più ristretto dei volontari più giovani e di ragazzi ci troviamo anche il lunedì e facciamo attività più difficili da organizzare quando siamo in tanti, come dipingere o lavorare la creta. Chi di voi avrà voglia di avventurarsi fino al fondo del campo da basket dell’oratorio potrà ammirare un murales che abbiamo dipinto con i nostri ragazzi la scorsa primavera.

Quando ho cominciato a frequentare il gruppo non avrei mai immaginato quanto mi ci sarei affezionata. Sono partita con l’idea di andare a fare volontariato e ho scoperto un mondo e trovato una famiglia. Chiunque metta piede ai bip è il benvenuto e si sente accolto, ed è anche per questo motivo che il gruppo è cresciuto così tanto negli anni e continua a farlo. Senz’altro organizzando gli incontri e le varie attività alleggeriamo il carico delle famiglie dei nostri ragazzi, ma la verità è che il mercoledì ci troviamo tra amici, i rapporti che si creano all’interno del gruppo sono solidi, genuini e profondi. Io, da studentessa fuori sede lontana dalla propria città e dai propri affetti, ho trovato nei bip una vera e propria famiglia. Il mercoledì è diventato un appuntamento fisso, una certezza della mia settimana, un momento che custodisco gelosamente nella mia felicità di condividerlo con chi abbia il desiderio di farne parte.

È normale pensare al volontariato come qualcosa che si fa per gli altri, come un atto di generosità che prende una parte del proprio tempo per donarlo a qualcun altro, come qualcosa di utile. Ma la realtà è che al gruppo bip ci si va anche per se stessi, non perché ci si sente utili ma perché ci si sta bene. L’energia, la forza, la positività che si traggono dalle persone che lo frequentano sono una medicina per il cuore. Quante volte, dopo una giornata infinita, magari con delle preoccupazioni, sono arrivata in oratorio il mercoledì e l’amore mi ha travolta, mi ha alleggerita e per qualche ora mi ha fatto dimenticare tutto. La naturalezza con cui ci si rapporta l’uno all’altro in modo disinteressato e puro all’interno del gruppo, la spensieratezza che si respira quando si sta insieme, l’interesse per l’altro, la gioia di condividere momenti di quotidianità e di confidarsi i propri vissuti sono ciò che ci tiene uniti e fa sì che non riusciamo a fare a meno di incontrarci. La disabilità diventa una caratteristica non diversa dal numero di scarpe o dal colore dei capelli perché nel gruppo ognuno è semplicemente una persona, con la propria storia, le proprie emozioni, le proprie fragilità e i propri punti di forza.

Ognuno, che sia un volontario o uno dei ragazzi, si prende cura dell’altro perché ce l’ha a cuore, come diceva bene Don Milani con il suo I care. Per me il gruppo bip è tutto questo. È un luogo dove ci si sente a casa, dove ci si sente protetti e al sicuro, dove qualcuno sarà sempre pronto ad accoglierti, a tenderti una mano e prenderti sottobraccio per camminare insieme. È un gruppo che vibra, da cui, dopo essersi incontrati, si esce reciprocamente trasformati in una versione migliore di sé. È un gruppo che si nutre d’amore e di speranza, che, come disse bene Havel in una sua poesia, non è la convinzione che tutto andrà bene ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà. La speranza è un orientamento dello spirito e del cuore, e noi sappiamo bene che questo gruppo ha un senso e dà senso al nostro presente mentre siamo orientati verso un futuro da costruire insieme ogni giorno.

Il gruppo bip cresce perché è vivo e in questi anni, al suo interno, sono cresciuta e ho vissuto molto anche io.

Perché un giornale per la nostra parrocchia

di Pietro Saccò

Rilanciare un giornale parrocchiale in questi primi giorni del 2024 può sembrare un’idea anacronistica, davvero poco adatta ai tempi che viviamo. Le vendite dei quotidiani sono precipitate di più di un terzo negli ultimi cinque anni, l’interesse degli italiani verso l’informazione giornalistica sembra scemare anche online (tanto che le notizie, per chi lo ha notato, stanno scivolando fuori dal flusso di foto e testi proposto dai social network) e tra gli studiosi del giornalismo un tema tristemente sempre più analizzato è quello della news avoidance: il fenomeno per cui le persone scelgono attivamente di evitare di imbattersi nelle notizie nel corso della loro giornata, nella maggioranza dei casi perché le trovano deprimenti, incomprensibili, inutili. Spesso anche sovrabbondanti: una persona che vuole essere informata può essere scoraggiata dalla quantità di notizie che arrivano online da fonti disparate e quindi arrendersi e ritirarsi a pensare ai fatti propri, al riparo da quello che gli editori (o più probabilmente gli algoritmi) vorrebbero farci sapere.

È anche un po’ contro il rischio di questa resa che punta a lavorare La Lanterna, il giornale della Parrocchia di Santa Maria del Rosario, che riparte con questo articolo – dopo qualche decennio di pausa – in una forma nuova, digitale, aperta, non cadenzata. «La nostra idea è quella di raccontare anche all’esterno tutta la positività che emerge dalla nostra zona, dalla vita della parrocchia e di tanta gente che le orbita attorno nel nostro quartiere, ma anche per aprirci all’esterno, diventare cassa di risonanza di “buone notizie”» spiega don Marco, che ha iniziato a ragionare sul rilancio de La Lanterna la scorsa estate, dopo avere visto esperienze positive di giornalismo parrocchiale in altre zone d’Italia. «Mi domandavo se fosse possibile una modalità nuova, meno legata a forme tradizionali, per raggiungere i nostri parrocchiani – racconta –. Confrontandomi con il Cedac e con i diversi professionisti del giornalismo coinvolti nella vita della Parrocchia abbiamo deciso di andare avanti».

Il progetto è quello di fare informazione positiva: raccogliere nel territorio di Santa Maria del Rosario storie e testimonianze preziose e raccontarle, perché hanno qualcosa di importante e utile per la comunità, qualcosa che sarebbe sbagliato sprecare. Allo stesso tempo cercheremo di proporre spunti di riflessione e idee sulla vita e il cambiamento del quartiere, uno dei più popolosi e interessanti della città di Milano. La Lanterna sarà anche uno degli strumenti per portare avanti il rapporto della Parrocchia con i parrocchiani e il resto della comunità del quartiere: ad esempio dando conto delle attività della Caritas, del Cedac, dell’Oratorio, dei Gruppi sportivi e della Cultura. «Molto spesso tante iniziative che accadono nel quartiere, meriterebbero di essere comunicate e condivise – ricorda don Marco –. La parrocchia è uno dei centri più forti dell’area, dare voce a tutta questa vasta bellissima ricchezza di umanità nel nostro territorio, che non è valorizzata dai media locali, può fare bene a tanti». La Lanterna sarà uno strumento di servizio alla comunità. A realizzarla sarà  un gruppo di giornalisti che si è messo a disposizione, ma il progetto sarà corale, perché elemento chiave sarà anche il coinvolgimento dei parrocchiani: tutti quelli che che partecipano alla vita di questa comunità possono imbattersi in storie, vicende, persone progetti e idee che meritano di essere raccolte e raccontate agli altri. Per questo le  proposte e segnalazioni,  spunti e i suggerimenti saranno fondamentali per fare in modo che, nella straordinaria ricchezza dell’offerta che la Parrocchia di Santa Maria del Rosario sa offrire al territorio in cui vive, trovi degnamente il suo posto anche una cosa antica, ma non anacronistica, come un giornale.