Ma dove sono finiti i vecchi ristoratori?

di Pietro Saccò

Dove sono finiti i vecchi ristoratori, quelli che aprono un locale o un ristorante perché inseguono la loro passione, hanno un piccolo progetto o semplicemente perché è questo quello che sanno fare? A guardare le insegne, mentre si passeggia per via Solari e dintorni, sembrano non essercene quasi più. O meglio: si vedono quelli che ancora resistono, cioè i locali aperti da decenni gestiti da famiglie che più o meno faticosamente portano avanti la tradizione, e si notano quei pochi che ci provano, i coraggiosi che avviano la loro attività indipendente sapendo che come vicini di casa si troveranno molto probabilmente qualcosa di molto più grande di loro. Magari un gruppo da milioni di euro di fatturato oppure l’ultimo concept di un fondo di investimento.

Impossibile non accorgersene: le vetrine del quartiere attorno alla parrocchia del Rosario si stanno popolando con impressionante rapidità di ristoranti senza ristoratori, che replicano facendo economie di scala modelli riusciti altrove o che sperimentano anche in quest’area della città le ultime idee imprenditoriali venute in mente a qualche esperto di marketing e di startup.

Basta qualche esempio. In poco tempo e nel giro di poche centinaia di metri hanno aperto due pizzerie al taglio Alice (controllate dal fondo DeA Capital di De Agostini, circa 28 miliardi di euro di patrimonio) e due ristoranti La Piadineria (catena da poco ceduta dal fondo Permira a un altro fondo lussemburghese Cvc Capital, che dispone di circa 186 miliardi di euro). Davanti alla parrocchia c’è il ristorante di panini di pesce Pescaria, che appartiene a un’agenzia di marketing barese chiamata Brainpull, mentre poco più in là, dove una volta c’era un supermercato Sigma, la birreria Spiller controllata dal produttore di birre altoatesino Forst (è la quarta a Milano di questa catena) ha da poco preso il posto dell’effimera pescheria Pescatorum, che si era presentata come una “startup” di “store” di quartiere capaci di riscoprire i pesci dimenticati. Tra via Foppa e via California è spuntata Crocca, pizzeria controllata dalla società che controlla anche il marchio Pizzium ed è la principale attività dell’imprenditore brianzolo Stefano Saturnino, che ha lanciato diverse catene e ha l’appoggio del fondo di private equity Equinox. All’angolo con Stendhal non è sopravvissuto nemmeno due anni Lob’s, tentativo fallito di proporre cucina americana da parte del gruppo veneto Dmo, che ha avuto più successo con i negozi di prodotti per la casa (Caddy’s) o cosmetica (Beauty Star).

Le catene e i grandi fondi di investimento non sono il male. In molti di questi posti – conviene sottolinearlo – si sta (o si stava) anche bene e alcuni hanno prezzi competitivi. La tendenza alla chiusura dei negozi e dei ristoranti indipendenti e la crescita delle catene, anche nel settore della ristorazione, è una tendenza globale che fisiologicamente arriva a Milano, e nella nostra area, prima che in altre zone d’Italia (la Fipe, l’associazione dei bar e dei ristoranti, calcola che oggi le catene fanno l’11% del mercato della ristorazione italiana). La tendenza, insomma, è questa. Però è giusto interrogarsi su che cosa porta questa trasformazione, sugli effetti che l’arrivo di questo tipo di attività e di questi capitali hanno sul territorio che viviamo.

Perché, ad esempio, qualcosa cambia sul fronte della “comunità” e del vivere insieme. È sicuramente positivo che gli investimenti di queste grandi imprese portino lavoro. Ma per chi? Quanti dei dipendenti di queste imprese hanno stipendi che permettono loro di vivere vicino al posto in cui lavorano o almeno nel raggio di tre o quattro chilometri dal quartiere? Sicuramente pochi: la grande maggioranza sono persone che abitano distanti, i clienti che servono non sono le persone che vivono attorno a loro. Se la ristorazione è anche relazione, e non solo scambio economico e soddisfacimento di bisogni, questa distanza di esperienza della quotidianità tra chi vende e chi compra non può che ridurre la capacità di un “punto vendita” di creare senso di comunità tra le persone della zona. Questo è ancora più vero quando nemmeno il titolare vive lì e quindi le sue sorti e quelle della gente che abita la zona del suo ristorante convergono soltanto sull’aspetto economico. I fondi di investimento e i grandi gruppi solitamente cercano di creare redditività, non comunità.

Anche per i ristoratori indipendenti qualcosa cambia. Quando arrivano fondi con disponibilità milionarie, per un esercente può diventare difficile reggere la concorrenza. Sia quando è diretta (qualcuno avrà notato che alla fine di via Solari, ai numeri 39 e 41, ora ci sono due grandi pizzerie una a fianco all’altra, chi resisterà?) ma anche quando è indiretta e riguarda solo gli spazi a disposizione. I costi degli affitti dei locali, quando non sono di proprietà, possono diventare proibitivi, inaccessibili, come già sta succedendo per le abitazioni. Il business delle librerie indipendenti ha i suoi problemi, ma può essere ancora più difficile mantenere una libreria in un luogo dove magari un gruppo da decine di milioni di fatturato ha pensato che si potrebbe aprire una piadineria, una pokeria o qualche altra attività replicabile e scalabile (e il quartiere ha da pochi mesi tristemente perso la Libreria Corteccia, che stava in via Lanino e da marzo non c’è più).

In via Solari ora ci sono due pizzerie una a fianco all’altra: a fianco alla storica “Il Pomodorino” è spuntata una Pizzium

Dario Bossi, parrocchiano di antica data, è direttore di Ancra, storica associazione di Confcommercio che associa i negozi di prossimità specializzati in elettrodomestici ed elettronica. Queste dinamiche le conosce bene: «Nella nostra zona resiste un’imprenditoria autoctona che porta avanti la tradizione che va di padre in figlio. Per chi inizia adesso è complicato. Guardiamo ad esempio i bar, con l’espansione di imprenditori cinesi sempre più attivi anche nella piccola ristorazione. È chiaro che così rischiamo di perdere la nostra identità». Nell’ambito della ristorazione, aggiunge, oggi è richiesta molta più specializzazione per differenziarsi dalle catene: «Resiste il gourmet, chi trova la sua nicchia. E anche chi ha saputo adattarsi alla logica del pranzo a dieci euro, e questo sa fare anche comunità». Bossi sottolinea anche il fenomeno dei rider per le consegne a domicilio, che hanno aiutato tanti ristoratori durante il Covid ma oggi allontanano ancora di più le attività di ristorazione dal loro territorio di presenza fisica, così come la questione dei dehor, gli spazi all’esterno: «I comitati di quartiere forse hanno reagito in maniera sbagliata, ma è chiaro che c’è poco controllo e l’assenza del rispetto delle regole crea sempre problemi».

I nodi sono tanti. L’arrivo massiccio delle catene si inserisce in un più generale processo di “turistizzazione” e “gentrificazione” di Milano, che sta diventando sempre più una città da visitare più che da abitare (un processo descritto in modo efficace e forse fin troppo severo dall’urbanista Lucia Tozzi nel libro L’invenzione di Milano) e in ogni caso riservata se non ai ricchi almeno ai veri benestanti. Nel raggio attorno alla parrocchia, salvo l’isola di edilizia pubblica del quartiere Umanitaria, ci sono poche abitazioni per chi arriva e non ha redditi famigliari a cinque cifre. Può essere che questa trasformazione renda la zona più redditizia e faccia salire il Pil per abitante (quasi certamente è così) ma è molto improbabile che renda gli stessi abitanti più felici.

Mauro Magatti, Leonardo Becchetti e altri sociologi ed economisti di area cattolica hanno sviluppato il concetto di economia e società generativa che si oppone a quello di economia estrattiva: mentre la seconda toglie ai territori e alle comunità, li sfalda, li indebolisce e si arricchisce a spese loro, la seconda li arricchisce davvero, aumentando il capitale sociale, culturale e relazionale di un territorio, con una crescita che porta con sé anche un benessere economico più autentico. Possono sembrare idee complicate, troppo teoriche e astruse, quando le guardiamo in astratto, ma sono realtà che possiamo capire quando le vediamo concretamente nella quotidianità dei luoghi che viviamo.

Gli educatori a Sarajevo, in un viaggio tra guerra, pace e speranza

di Maria Laura Pisani

Nel cuore della Bosnia-Erzegovina, sorge una città intrisa di storia, cultura e, purtroppo, di conflitto. Sarajevo, crocevia di culture e religioni, è stata la meta di un viaggio straordinario a inizio marzo per Don Martino e alcuni degli educatori dei ragazzi del liceo. È stato un viaggio di scoperta e di confronto, un’immersione nella storia e nella realtà contemporanea di un luogo che ha vissuto momenti di splendore e tragedia.

La storia di Sarajevo è una tessitura intricata di eventi, una miscela di culture e religioni che convivono in un equilibrio fragile. Durante il nostro soggiorno abbiamo avuto l’opportunità di comprendere le radici della guerra che ha segnato profondamente questa terra. Abbiamo incontrato e ascoltato persone che hanno vissuto la guerra sulla propria pelle e che, nonostante le avversità, continuano a coltivare la speranza e a lavorare per un futuro migliore. Ascoltare le loro testimonianze è stato davvero commovente e illuminante.

Abbiamo avuto modo anche di visitare l’orfanatrofio “SOS Village”, organizzato in diverse “case famiglia”. Qui abbiamo incontrato alcuni bambini e siamo rimasti colpiti dal fatto che, se al nostro arrivo eravamo convinti di poter dare qualcosa a questi piccoli, usciti da lì ci siamo resi conto che in quelle poche ore sono stati proprio i bambini a darci tanto, grazie ai loro sorrisi, ai loro disegni e addirittura a quelle macchinine che ci sono state regalate con tanto affetto. Siamo rimasti colpiti dalla generosità, visto che il numero di giocattoli di quei bimbi non è proprio paragonabile a quello che hanno i bambini nella nostra città.

Il gruppo degli educatori di Santa Maria del Rosario in viaggio a Sarajevo

È impressionante come, visitando la città, si vedano ancora i segni dei colpi della guerra, che narrano silenziosamente la storia di sofferenza e distruzione che Sarajevo ha conosciuto. Sembra incredibile pensare che ancora nel 1984, pochi anni prima della guerra, questa stessa città abbia ospitato le Olimpiadi invernali, simbolo di pace e fratellanza tra le nazioni ed evento che ha proiettato Sarajevo sotto i riflettori internazionali.  Sarajevo, però, non è solo il ricordo delle ferite del passato, ma anche testimonianza di speranza.

L’impatto della guerra e la complessa situazione politica attuale della Bosnia-Erzegovina ci hanno fatto riflettere profondamente anche sulla fragilità della pace. La divisione etnica del paese, con la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica Serba, crea uno stallo politico che ostacola il progresso e l’unità nazionale. Per esempio, ogni ministero, ad eccezione di quello dei trasporti e dell’istruzione, ha due ministri: uno per la Federazione e uno per la Repubblica. Questo spesso genera conflitti, poiché i ministri tendono a contrastare le iniziative di interesse dell’altra parte. È una realtà intricata, dove ogni passo verso la cooperazione viene spesso contrastato dalle tensioni etniche e politiche.

Tornando a casa, portiamo con noi non solo ricordi indelebili, ma anche un senso di responsabilità. Essere lì, in un luogo dove 30 anni prima si è combattuta una guerra che ha portato tantissimi morti e pensare che tuttora, molto vicino a noi, si stiano combattendo altre guerre, fa davvero venire i brividi!  La Bosnia-Erzegovina è sicuramente un esempio vivido di come il passato possa gettare ombre sul presente. Penso, infatti, che sarebbe molto utile studiare questa parte di storia molto più nel dettaglio anche nelle scuole, poiché è molto importante per capire alcune dinamiche che riguardano l’attualità.

Ci rendiamo conto che la conoscenza e la consapevolezza siano fondamentali per costruire un mondo migliore. È nostro dovere, come educatori e cittadini del mondo, condividere queste esperienze con i ragazzi, perché solo comprendendo il passato possiamo sperare di cambiare il futuro!

L’esperienza a Sarajevo ci ha insegnato che anche nei momenti più bui, la luce della speranza continua a brillare. E ora, più che mai, ci sentiamo chiamati a essere agenti di cambiamento, ad agire per promuovere la pace e la comprensione tra i popoli.

Quest’estate, insieme agli adolescenti, faremo ritorno a Sarajevo. Sarà un’opportunità per loro di conoscere da vicino una realtà complessa e affascinante, ma soprattutto di essere ispirati a fare la differenza nel mondo.

Sarajevo ci ha aperto gli occhi e il cuore. È importante condividere questa visione con il mondo, perché solo insieme possiamo costruire un futuro di pace e tolleranza.

“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.” (Matteo 5,9)

La famiglia bip, un gruppo che si nutre d’amore

di Francesca Barizza

Il gruppo bip è un gruppo storico dell’oratorio, esiste da più di quarant’anni ed è una realtà meravigliosa. Il nome nasce in chiave scherzosa: la disabilità negli anni ’80 era ancora un po’ un tabù perciò Roberto, che ha fondato il gruppo, ha deciso di mettere un bip al posto della parola “disabili”, richiamando i bip sonori che si mettevano sulle parolacce in radio o in televisione. Il gruppo disabili fa storcere il naso? Nessun problema, vi presentiamo il gruppo bip!

Un po’ per caso, quasi cinque anni fa, sono entrata a farne parte anche io. Vivevo a Milano da poco più di un anno e una mia amica dell’università mi ha proposto di andarci con lei un mercoledì. Da quel momento non ho mai smesso.

Nel gruppo siamo ormai più di sessanta e i ragazzi con disabilità – che noi chiamiamo semplicemente “i ragazzi” – sono più o meno una ventina. Ogni mercoledì ci troviamo al bar dell’oratorio e svolgiamo diverse attività ludiche insieme: tombola, karaoke, tornei di biliardino, ping pong, pallavolo, calcio, basket, cacce al tesoro o altri giochi che ci inventiamo di volta in volta. Poi ceniamo tutti insieme e tra una chiacchiera, una battuta e un abbraccio il tempo vola. A volte usciamo dall’oratorio per fare altre attività o andiamo a mangiare da qualche parte, altre volte vengono a trovarci altri gruppi di Milano e condividiamo con loro i momenti di gioco e la cena, altre volte ancora svolgiamo dei laboratori con esterni, come nel caso di un laboratorio di cucina organizzato prima di Natale. Ogni estate, l’ultima settimana di giugno andiamo in vacanza tutti insieme, a fare quella che per noi è la “Baita bip”. In due occasioni siamo andati a Roma ad un’udienza del papa, dove i nostri ragazzi hanno potuto stringergli la mano e avere la sua benedizione. Insomma, le cose che facciamo sono molte e i ricordi che costruiamo e conserviamo insieme ancora di più. Da un paio d’anni, inoltre, in un gruppo più ristretto dei volontari più giovani e di ragazzi ci troviamo anche il lunedì e facciamo attività più difficili da organizzare quando siamo in tanti, come dipingere o lavorare la creta. Chi di voi avrà voglia di avventurarsi fino al fondo del campo da basket dell’oratorio potrà ammirare un murales che abbiamo dipinto con i nostri ragazzi la scorsa primavera.

Quando ho cominciato a frequentare il gruppo non avrei mai immaginato quanto mi ci sarei affezionata. Sono partita con l’idea di andare a fare volontariato e ho scoperto un mondo e trovato una famiglia. Chiunque metta piede ai bip è il benvenuto e si sente accolto, ed è anche per questo motivo che il gruppo è cresciuto così tanto negli anni e continua a farlo. Senz’altro organizzando gli incontri e le varie attività alleggeriamo il carico delle famiglie dei nostri ragazzi, ma la verità è che il mercoledì ci troviamo tra amici, i rapporti che si creano all’interno del gruppo sono solidi, genuini e profondi. Io, da studentessa fuori sede lontana dalla propria città e dai propri affetti, ho trovato nei bip una vera e propria famiglia. Il mercoledì è diventato un appuntamento fisso, una certezza della mia settimana, un momento che custodisco gelosamente nella mia felicità di condividerlo con chi abbia il desiderio di farne parte.

È normale pensare al volontariato come qualcosa che si fa per gli altri, come un atto di generosità che prende una parte del proprio tempo per donarlo a qualcun altro, come qualcosa di utile. Ma la realtà è che al gruppo bip ci si va anche per se stessi, non perché ci si sente utili ma perché ci si sta bene. L’energia, la forza, la positività che si traggono dalle persone che lo frequentano sono una medicina per il cuore. Quante volte, dopo una giornata infinita, magari con delle preoccupazioni, sono arrivata in oratorio il mercoledì e l’amore mi ha travolta, mi ha alleggerita e per qualche ora mi ha fatto dimenticare tutto. La naturalezza con cui ci si rapporta l’uno all’altro in modo disinteressato e puro all’interno del gruppo, la spensieratezza che si respira quando si sta insieme, l’interesse per l’altro, la gioia di condividere momenti di quotidianità e di confidarsi i propri vissuti sono ciò che ci tiene uniti e fa sì che non riusciamo a fare a meno di incontrarci. La disabilità diventa una caratteristica non diversa dal numero di scarpe o dal colore dei capelli perché nel gruppo ognuno è semplicemente una persona, con la propria storia, le proprie emozioni, le proprie fragilità e i propri punti di forza.

Ognuno, che sia un volontario o uno dei ragazzi, si prende cura dell’altro perché ce l’ha a cuore, come diceva bene Don Milani con il suo I care. Per me il gruppo bip è tutto questo. È un luogo dove ci si sente a casa, dove ci si sente protetti e al sicuro, dove qualcuno sarà sempre pronto ad accoglierti, a tenderti una mano e prenderti sottobraccio per camminare insieme. È un gruppo che vibra, da cui, dopo essersi incontrati, si esce reciprocamente trasformati in una versione migliore di sé. È un gruppo che si nutre d’amore e di speranza, che, come disse bene Havel in una sua poesia, non è la convinzione che tutto andrà bene ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà. La speranza è un orientamento dello spirito e del cuore, e noi sappiamo bene che questo gruppo ha un senso e dà senso al nostro presente mentre siamo orientati verso un futuro da costruire insieme ogni giorno.

Il gruppo bip cresce perché è vivo e in questi anni, al suo interno, sono cresciuta e ho vissuto molto anche io.

Il corso per fidanzati e l’ingresso nella comunità parrocchiale

di Roberto Bargone

“Come spieghereste il cristianesimo a un bambino cinese, di famiglia atea o buddista, che non lo ha mai sentito nominare?”. La domanda, a prima vista ingenua, ricorre in ogni edizione del corso per fidanzati. È molto più insidiosa di quanto appaia all’inizio, e don Marco sembra divertirsi nel barcamenarsi tra le risposte impacciate dei presenti. Anche le risposte, in un certo senso, ricorrono identiche: don Marco le chiama “pie bestemmie”. “Beh, Gesù è il figlio di Dio”, dice invariabilmente qualcuno. “In che senso figlio di Dio?”, risponde don Marco, sornione, immedesimandosi nel suddetto bambino cinese. “E con chi l’avrebbe fatto questo figlio?”. Sia pure con toni rilassati, è una bella lezione di teologia in piccolo.

E così un quesito solo apparentemente innocente trasforma per qualche minuto la sala parrocchiale di Santa Maria del Rosario in un nuovo Concilio di Nicea, con don Marco nelle vesti di Costantino il Grande a presiedere l’assemblea. Manca però, fortunatamente, la figura di San Nicola, che secondo la leggenda avrebbe, proprio in quell’occasione, preso a schiaffi Ario, il presbitero di Alessandria d’Egitto che affermava la natura totalmente umana, e quindi non divina, di Gesù. Qualche affermazione pericolosamente vicina all’eresia ariana riecheggia minacciosa anche qui, ma don Marco, sempre col sorriso sulle labbra, interviene prontamente a ristabilire l’ortodossia.

Il corso fidanzati ricorre due volte l’anno, con una partenza a gennaio e una a settembre, e coinvolge un numero variabile di coppie che intendono sposarsi nel breve periodo. Non tutti sull’altare di Santa Maria del Rosario, però: Milano è una città di immigrati, e molti torneranno nel paese d’origine per la cerimonia. Come Caterina e Michele, calabresi, che si sposeranno a Vibo Valentia.

Attualmente in svolgimento c’è il primo corso dell’anno 2024. È cominciato da poco, ma nonostante questo i frequentanti già ne hanno una buona impressione. “Non abbiamo ancora socializzato, ma c’è grande potenziale, dice Giacomo, ingegnere romano che abbiamo incontrato insieme alla fidanzata, Sladana. Oppure Filippo, commercialista, che insieme alla fidanzata Marina definisce l’esperienza “molto positiva”.

La struttura del corso è collaudata: le coppie partecipano a una serie di incontri in parrocchia in cui si parla del significato del matrimonio sia come sacramento che come esperienza di vita. A coadiuvare il tutto ci sono alcune “coppie guida” formate da parrocchiani che accompagnano i fidanzatini nel loro percorso, anche accogliendoli nelle proprie case. Tra di loro c’è Claudio, sposato da ormai 14 anni, che ci tiene a specificare che “noi coppie guida non ci permettiamo di dare dei consigli, perché il matrimonio è un continuo work in progress. Anzi, sottolinea che “siamo noi stessi a porre in discussione noi stessi e la nostra esperienza, sia matrimoniale che di fede”. I temi trattati dalle coppie guida, dice ancora Claudio, “sono la pazienza, la fede, la spiritualità di coppia, insieme a tutte le tematiche che emergono durante il percorso”.

Quello a cui fa riferimento la parrocchia di Santa Maria del Rosario è un quartiere particolarmente adatto per le famiglie. Certo, il carovita e l’insensata crescita del costo del mattone a Milano è un ostacolo, e infatti questo pone un problema. Molti dei frequentanti, infatti, sono (o sono stati) studenti universitari arrivati nel quartiere per la vicinanza alle varie università, ma spesso sono in affitto. E così, al momento di allargare la famiglia, potrebbero essere costretti a spostarsi in aree in cui il prezzo delle case è meno esoso. Anche se, come puntualizza don Marco, “al momento di battezzare i figli poi tornano qui”. Un percorso in un certo senso simile lo ha fatto Federica, attuale frequentante del corso fidanzati. È cresciuta in questo quartiere, poi si è spostata in zona Garibaldi ma ha deciso di ritornare a Santa Maria del Rosario per sposarsi.

Com’è cambiato il corso per fidanzati negli anni? Secondo don Marco, “è cambiato innanzitutto con le indicazioni del Magistero. Il Papa, ad esempio, con l’indicazione apostolica Amoris Laetitia ha dato degli input nuovi. Ma anche sulla base dell’esperienza concreta, per cui alcune cose sono state modificate. Un tempo si faceva anche l’incontro col ginecologo, dato che prima non tutte le coppie erano conviventi; ora è meno necessario perché l’esperienza della convivenza riguarda quasi tutte le coppie”. Ecco la testimonianza in merito di Mattia, che ha frequentato il corso nel 2021: “Ci sono argomenti interessanti, con un’apertura che non mi aspettavo su vari temi, come la pianificazione familiare. Inoltre uno delle coppie guida è un avvocato che, una sera, ha tenuto una lezione sul diritto di famiglia.

Quello che non cambia, però, è il coinvolgimento delle coppie alla vita parrocchiale. Un percorso comunitario che spesso comincia proprio con il corso per fidanzati e continua prestando servizio in una delle tante attività legate alla parrocchia: il gruppo Bip, cioè quello dei ragazzi con disabilità, la raccolta dei vestiti e del cibo, il servizio docce, il corso di italiano per stranieri, il cineforum, i pranzi e tutti gli altri appuntamenti. Certo, non sono moltissimi quelli che rimangono coinvolti nel lungo periodo, riconosce Claudio con una punta di amarezza, ma qualcuno c’è. Così, ogni volta che inizia un nuovo corso per fidanzati, la comunità si ingrandisce, e don Marco ritorna nei panni del bambino cinese.

Milano-Sicilia, andata e ritorno

Una vacanza, la nostra comunità in viaggio e la scoperta “dell’altro” per arricchire la nostra quotidianità*

di Claudia La Via


Un viaggio capace di coniugare preghiera, amicizia, cultura e formazione. È l’esperienza che ha vissuto un gruppo di parrocchiani di Santa Maria del Rosario che lo scorso dicembre ha trascorso una settimana in Sicilia, alla scoperta della natura, della cultura, della storia e anche del buon cibo.

La meta all’inizio doveva essere la Turchia, ma poi la crisi in Medio Oriente ha convinto il gruppo a ripiegare su un’altra destinazione. E così è arrivata la scelta di trascorrere questa settimana sull’Isola.

Il viaggio e gli itinerari sono stati molto intensi, così come sono state tutte le giornate, due in particolare. La prima, quella dell’arrivo a Palermo il primo giorno, col passaggio nei luoghi della mafia che ha corrotto, ucciso e degradato. L’altro, l’ultimo giorno, trascorso a Porto Empedocle, all’interno di un centro d’accoglienza per migranti con la toccante testimonianza dei volontari coinvolti. “Prima di giungere a Palermo abbiamo fatto tappa nei pressi di Capaci, presso un casotto da cui gli attentatori fecero brillare l’esplosivo mentre sull’autostrada che anche noi stavamo percorrendo in quel momento, transitava il giudice Giovanni Falcone, accompagnato dalla moglie e dai tre uomini della scorta”, racconta Paolo Bonfanti uno dei parrocchiani coinvolti nel viaggio, che ha appuntato tutto con zelo costruendo un vero e proprio diario di viaggio. La giornata a Palermo è proseguita con la visita alla casa (oggi museo) del Beato Padre Pino Puglisi e del Centro Padre Nostro, da lui fondato nel famoso quartiere Brancaccio di Palermo, un tempo di esclusivo dominio della mafia e oggi, grazie anche alla sua coraggiosa opera educativa a tutela dei bambini, tornato finalmente alla legalità.

Il viaggio è stato anche un’esperienza gastronomica per i partecipanti che hanno degustato il cibo locale durante le “pause pranzo” tra una visita e l’altra, e alla sera in hotel: anelletti alla palermitana, cibo da strada e “arancine” (come vengono chiamate nella parte occidentale della Sicilia) fino ai classici dolci come il cannolo e la cassata.

Tante le tappe culturali tra la città di Trapani e la sua provincia, con il Monte Erice, i templi e le rovine archeologiche di Segesta e Selinunte, le saline di Marsala e l’isola di Mothia e poi la città di Agrigento e la Valle dei Templi. Proprio vicino ad Agrigento si è conclusa l’esperienza del gruppo di viaggio del Rosario, forse la più forte e significativa della settimana, con l’arrivo a Porto Empedocle sotto la guida di don Aldo Sciabarrasi, parroco di Raffadali (cittadina collinare a quindi chilometri da Agrigento).

È qui che si trova un importantissimo centro di prima accoglienza per i migranti che sbarcano sull’isola. Lì Angelo, responsabile della Croce Rossa locale e Simona, educatrice e volontaria, hanno raccontato le esperienze e le fatiche quotidiane a contatto con chi arriva in cerca di speranza e nuove possibilità.

Il centro, ora fortunatamente vuoto, è arrivato a ospitare contemporaneamente anche 1.600 migranti. Si tratta di un luogo di passaggio, dove sostano al massimo per 24/48 ore, utile per alleggerire l’hotspot di Lampedusa, che ha una capienza massima di 400 persone. Nel periodo dal 16 luglio al 24 settembre scorso, i volontari (10 al giorno a turno e per 30 giorni) hanno prestato il loro prezioso supporto in maniera instancabile, per anche 20 ore al giorno, coadiuvati dalla Caritas diocesana e dal vescovo di Agrigento.

I parrocchiani hanno potuto confrontarsi con i due volontari su questa esperienza. “Abbiamo toccato con mano quanto il volontariato, se svolto con passione, gratuità e anche fermezza, senza alcun interesse né economico, né di parte, sia il simbolo di vera e altissima umanità”, racconta Paolo, felice di questa forte condivisione.

Conclusa l’esperienza di viaggio, sono tanti i bagagli con cui sono ritornati a Milano i trenta parrocchiani del Rosario, assieme a don Marco. A partire dalla bellezza di essere gruppo e di vivere esperienze arricchenti non come singoli, ma come comunità.

Inoltre, la forza delle esperienze “forti” vissute e testimoniate in Sicilia ha confermato l’importanza di sapersi schierare su determinate questioni sociali e saperlo fare non solo nella teoria, ma anche nella pratica e nel proprio quotidiano. È quello che per esempio fa ogni giorno Claudio, nostro parrocchiano e diacono permanente ora a servizio presso San Vittore a stretto contatto coi carcerati, ma è anche il “motore” che muove l’opera dei volontari della parrocchia che collaborano per poter offrire ai senza tetto della zona 80 docce settimanali e la distribuzione della relativa biancheria intima.

Poi c’è l’attenzione all’altro, anche se non per forza “bisognoso” nel senso letterale del termine. Ed è quello che Santa Maria del Rosario sta cercando di fare, tendendo una mano anche ai giovani universitari per contrastare l’emergenza abitativa nel quartiere e offrendo loro a prezzi calmierati una stanza presso la residenza per universitari da qualche anno in funzioni nei locali attigui alla chiesa. Un modo per ricordarci che quello che viviamo nella nostra quotidianità come parrocchia e come quartiere è, in piccolo o in grande, quello che chiunque nel mondo può vivere se sposa l’idea dell’aiuto, della comunità e dell’accoglienza.

*è stato possibile realizzare questo mini-reportage grazie al prezioso contributo del nostro parrocchiano Paolo Bonfanti che ha documentato ogni momento di questo viaggio con puntualità e grande cura.

Perché un giornale per la nostra parrocchia

di Pietro Saccò

Rilanciare un giornale parrocchiale in questi primi giorni del 2024 può sembrare un’idea anacronistica, davvero poco adatta ai tempi che viviamo. Le vendite dei quotidiani sono precipitate di più di un terzo negli ultimi cinque anni, l’interesse degli italiani verso l’informazione giornalistica sembra scemare anche online (tanto che le notizie, per chi lo ha notato, stanno scivolando fuori dal flusso di foto e testi proposto dai social network) e tra gli studiosi del giornalismo un tema tristemente sempre più analizzato è quello della news avoidance: il fenomeno per cui le persone scelgono attivamente di evitare di imbattersi nelle notizie nel corso della loro giornata, nella maggioranza dei casi perché le trovano deprimenti, incomprensibili, inutili. Spesso anche sovrabbondanti: una persona che vuole essere informata può essere scoraggiata dalla quantità di notizie che arrivano online da fonti disparate e quindi arrendersi e ritirarsi a pensare ai fatti propri, al riparo da quello che gli editori (o più probabilmente gli algoritmi) vorrebbero farci sapere.

È anche un po’ contro il rischio di questa resa che punta a lavorare La Lanterna, il giornale della Parrocchia di Santa Maria del Rosario, che riparte con questo articolo – dopo qualche decennio di pausa – in una forma nuova, digitale, aperta, non cadenzata. «La nostra idea è quella di raccontare anche all’esterno tutta la positività che emerge dalla nostra zona, dalla vita della parrocchia e di tanta gente che le orbita attorno nel nostro quartiere, ma anche per aprirci all’esterno, diventare cassa di risonanza di “buone notizie”» spiega don Marco, che ha iniziato a ragionare sul rilancio de La Lanterna la scorsa estate, dopo avere visto esperienze positive di giornalismo parrocchiale in altre zone d’Italia. «Mi domandavo se fosse possibile una modalità nuova, meno legata a forme tradizionali, per raggiungere i nostri parrocchiani – racconta –. Confrontandomi con il Cedac e con i diversi professionisti del giornalismo coinvolti nella vita della Parrocchia abbiamo deciso di andare avanti».

Il progetto è quello di fare informazione positiva: raccogliere nel territorio di Santa Maria del Rosario storie e testimonianze preziose e raccontarle, perché hanno qualcosa di importante e utile per la comunità, qualcosa che sarebbe sbagliato sprecare. Allo stesso tempo cercheremo di proporre spunti di riflessione e idee sulla vita e il cambiamento del quartiere, uno dei più popolosi e interessanti della città di Milano. La Lanterna sarà anche uno degli strumenti per portare avanti il rapporto della Parrocchia con i parrocchiani e il resto della comunità del quartiere: ad esempio dando conto delle attività della Caritas, del Cedac, dell’Oratorio, dei Gruppi sportivi e della Cultura. «Molto spesso tante iniziative che accadono nel quartiere, meriterebbero di essere comunicate e condivise – ricorda don Marco –. La parrocchia è uno dei centri più forti dell’area, dare voce a tutta questa vasta bellissima ricchezza di umanità nel nostro territorio, che non è valorizzata dai media locali, può fare bene a tanti». La Lanterna sarà uno strumento di servizio alla comunità. A realizzarla sarà  un gruppo di giornalisti che si è messo a disposizione, ma il progetto sarà corale, perché elemento chiave sarà anche il coinvolgimento dei parrocchiani: tutti quelli che che partecipano alla vita di questa comunità possono imbattersi in storie, vicende, persone progetti e idee che meritano di essere raccolte e raccontate agli altri. Per questo le  proposte e segnalazioni,  spunti e i suggerimenti saranno fondamentali per fare in modo che, nella straordinaria ricchezza dell’offerta che la Parrocchia di Santa Maria del Rosario sa offrire al territorio in cui vive, trovi degnamente il suo posto anche una cosa antica, ma non anacronistica, come un giornale.